Non succedeva da tempo. Sul quotidiano Il Centro sei colonne tutte per L’Aquila ed il suo allenatore. Sintomo di come Massimo Morgia abbia fatto breccia nei cuori dei tifosi rossoblù e di come riesca a dialogare con loro da grande comunicatore qual è. Grazie alla penna sapiente di Enrico Nardecchia, il tecnico rossoblù si è raccontato con schiettezza tra passato e presente, un discorso di fine anno con uno sguardo al futuro. Della lunga intervista riportiamo alcuni passi significativi.
“L’allenatore deve essere un maestro, ma uno di quelli veri, che deve insegnare, oltre a quello che si fa in campo, quello che si deve fare fuori - dice Morgia sul rapporto tra allenatore e giocatori - Non come singolo, ma come appartenenza a un gruppo che persegue gli stessi obiettivi. Un maestro sia di sport, sia di vita. Visto che è un capo acquisito, deve diventare un capo riconosciuto.
“Per trent’anni ho vissuto con un ragazzo down – continua Morgia sulle foto del calendario rossoblù ed il suo rapporto coi ragazzi della Special Olympics - Mio cognato Paolo per me è stato un grosso insegnamento di vita. Mi ha tirato fuori tante cose, mi ha migliorato, mi ha fatto conoscere un modo di comunicare senza parlare, la sensibilità di un gesto. Quando è morto io, ricordandolo dall’altare, ho detto: è molto più quello che mi ha dato lui che quello che gli ho dato io. Un grande maestro di vita, mi ha trasmesso cose che professori e gente incravattata non hanno fatto mai. Qui all’Aquila ho trovato un amico, sono stato anche ospite a casa sua. Si chiama Paolo Aquilio, è un grande tifoso. Viene al campo tutti i venerdì, ci ha regalato una mascotte, l’aquilotta che porto con me in panchina e da quel giorno, dopo la sconfitta con l’Arzachena, non abbiamo più perso”.
“Mi accorgo che c’è grande ansia di ritornare in una categoria minima per un capoluogo che potrebbe arrivare fino alla B – risponde Morgia quando Nardecchia chiede che 2017 sarà per L’Aquila – Ma come qui, 7 anni fa, è successo un terremoto, bisogna dire che ne è successo uno calcistico con la retrocessione e le brutte vicende della penalizzazione. Dopo 7 anni vedo e vivo che è stato fatto tanto, vedo le gru in movimento, però il centro storico ancora non esiste, la vita non è ripresa a pieno, tantissima gente è ancora fuori. Noi stiamo lavorando da sei mesi e abbiamo fatto già abbastanza. C’è molto da fare, L’Aquila dobbiamo ricostruirla anche noi.
Significa non solo aspirare a vincere il campionato, aspirazione di chiunque fa sport, ma ricostruire, anzi costruire per la prima volta una mentalità. Creare subito le basi per vincere, se ci riusciamo, altrimenti si vince l’anno prossimo. Però, per durare nel tempo e fare passi in avanti, bisogna imparare. Il presidente poteva comprare tutti i migliori del mondo, spendere l’impossibile, poteva anche vincere ma se non vinceva falliva. Oppure, se vinceva, quelli non sarebbero stati adeguati e avrebbe dovuto puntare sempre ai migliori. Non è quello il modo.
Cominciamo a riempire lo stadio, cosa che ho visto solo con l’Avezzano… Bisogna portare gente, andrò a dirlo nelle scuole, voglio vedere famiglie, fidanzate, mamme e nonne. Lo stadio nuovo deve diventare quel centro di aggregazione che manca. Così si può ricostruire finalmente un modo diverso di fare calcio all’Aquila, che la porrebbe come modello da seguire. Se la città diventa un simbolo di vita sportiva sarà la più grande vittoria. Quanto tempo serve? Non ho impegni pluriennali, vivo la vita giorno per giorno. E quella da allenatore 90 minuti alla volta, la mia croce e la mia delizia”.